In Diritto di famiglia, Sentenze Corte di Cassazione, Tutela alla persona

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA 7 settembre 2017, n.40959 MASSIMA

L’ordinario ricorso alla violenza nei confronti di un minore, anche se animato dalla intenzione di educarlo, non rientra nella fattispecie di abuso dei mezzi di correzione ma in quella più grave di maltrattamenti.

CASUS DECISUS

Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, riformando la ordinanza emessa dal GIP del medesimo Tribunale, ha sostituito la misura coercitiva degli arresti domiciliari con quella interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio per la durata di dodici mesi nei confronti della prevenuta, indagata per il delitto di cui al 572 c.p., perché in qualità di insegnante della scuola materna poneva in essere comportamenti violenti ai danni dei suoi alunni. La difesa ha impugnato il provvedimento de quo, chiedendone l’annullamento, sulla base di tre censure: 1) violazione di legge in relazione all’art. 273 c.p.p. per la totale carenza di motivazione dell’ordinanza impugnata, nella quale i Giudici del riesame si erano limitata a replicare le argomentazioni già espresse dal Giudice per le indagini preliminari nel titolo genetico senza argomentare in ordine alle censure mosse dalla difesa; 2) violazione dell’art. 572 cod. pen., atteso che il Tribunale del riesame di Reggio Calabria non aveva verificato se l’indagata fosse o meno mossa da un personale animus corrigendi ed aveva omesso di motivare in ordine alla idoneità della condotta della persona sottoposta ad indagine ad integrare tale delitto e non già quello di abuso di mezzi di correzione o di disciplina; 3) violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari in quanto la già intervenuta sospensione dal servizio dell’indagata disposta dall’Ufficio Scolastico Regionale aveva eliso ogni pericolo di recidiva ed il procedimento disciplinare era stato sospeso sino all’esito del processo penale

ANNOTAZIONE

Il ricorso avanzato dalla difesa della prevenuta è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di legittimità, attesa la genericità ed indeterminatezza delle censure, comportando conseguentemente la condanna alle spese processuali nonché disponendo il versamento di una somma determinata in via equitativa di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende, in ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, ravvisandosi ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. Più nel dettaglio, l’impianto probatorio posto a fondamento del provvedimento gravato si appalesa organico e coerente (atteso anche il supporto avuto con il sistema di video sorveglianza che ha ripreso le condotte violente perpetrate ai danni degli alunni minori), per cui le censure sollevate risultano tutte infondate. Si è raggiunta la certezza indiziaria che la prevenuta abbia posto in essere i comportamenti addebitati che rientrano nell’alveo normativo del 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) e non già del meno grave delitto di cui al 571 c.p. (abuso dei mezzi di correzione) sia per le modalità e sia per la sistematicità. Sul punto, il principio di diritto enunciato dagli ermellini è il seguente: in tema di maltrattamenti in famiglia, l’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche se fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti; ed invero, il termine “correzione” va assunto come sinonimo di educazione e non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi.

TESTO DELLA SENTENZA


CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA 7 settembre 2017, n.40959 – Pres. Ippolito – est. D’Arcangelo Ritenuto in fatto1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, in riforma della ordinanza emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Calabria in data 23 novembre 2016, ha sostituito la misura coercitiva degli arresti domiciliari con quella interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio per la durata di dodici mesi nei confronti di D.G. , insegnante presso la Scuola Materna (omissis) , gravemente indiziata, in concorso con la collega R.G. , del delitto di maltrattamenti in famiglia posto in essere ai danni degli alunni minorenni alla medesima affidati.2. L’avv. Francesco Calabrese, difensore della D. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l’annullamento, deducendo tre motivi e, segnatamente:- la violazione di legge in relazione all’art. 273 cod. proc. pen. e, segnatamente, la totale carenza di motivazione dell’ordinanza impugnata, che si era limitata a replicare le argomentazioni già espresse dal Giudice per le indagini preliminari nel titolo genetico senza argomentare in ordine alle censure mosse dalla difesa;- la violazione dell’art. 572 cod. pen., atteso che il Tribunale del riesame di Reggio Calabria non aveva verificato se l’indagata fosse o meno mossa da un personale animus corrigendi ed aveva omesso di motivare in ordine alla idoneità della condotta della persona sottoposta ad indagine ad integrare tale delitto e non già quello di abuso di mezzi di correzione o di disciplina;- la violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari in quanto la già intervenuta sospensione dal servizio dell’indagata disposta dall’Ufficio Scolastico Regionale per la (…) aveva eliso ogni pericolo di recidiva ed il procedimento disciplinare era stato sospeso sino all’esito del processo penale.Considerato in diritto1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto i motivi nello stesso dedotti si rivelano manifestamente infondati.2. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione di legge in relazione all’art. 273 cod. proc. pen. e, segnatamente, la integrale carenza di motivazione dell’ordinanza impugnata, che si era limitata a replicare le argomentazioni già espresse dal Giudice per le indagini preliminari nel titolo genetico, senza argomentare in ordine alle censure formulate dalla difesa in ordine alla carenza della connotazione della abitualità nelle condotte della indagata.La ordinanza impugnata aveva, inoltre, obliterato la doverosa distinzione tra le condotte attribuite alla D. ed alla R. , violando il principio della personalità della responsabilità penale, tanto più in una situazione nella quale la distinzione tra i contegni attribuiti ai diversi concorrenti avrebbe potuto consentire di addivenire ad una più blanda qualificazione giuridica, se non addirittura al riconoscimento della loro irrilevanza penale.Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, inoltre, non aveva verificato la sussistenza per ciascuna condotta addebitata alla ricorrente di tutti gli elementi costitutivi del delitto di maltrattamenti in famiglia, sia nella componente materiale, che in quella psicologica.2.1. La censura si rivela, invero, generica e non scalfisce la logicità e la correttezza giuridica della trama motivazionale della ordinanza impugnata.Tale motivo di ricorso, invero, si caratterizza per l’enunciazione di argomenti e principi giurisprudenziali integralmente disancorati dal provvedimento impugnato e si connota per un generico riferimento agli elementi costitutivi del reato contestato e per un’apodittica censura per violazione di legge e vizio motivazionale.La mancanza di specificità del motivo, del resto, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione ed, in entrambi i conduce, ai sensi dell’art. 591 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), all’inammissibilità della stessa (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 4, n. 256 del 18/09/1997, Ahmetovic, Rv. 210157; Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, n. 39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, Scicchitano).Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto, innanzitutto il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta, mediante l’individuazione dei capi e dei punti dell’atto impugnato che si intendono sottoporre a censura con espressione di un vaglio critico in ordine a ciascuno di essi analiticamente formulato, che consenta di dimostrare che il ragionamento del giudice è errato (ex plurimis: Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv.255568; Sez. 6, n. 22445 dell’8/09/2009, P.M. in proc. Candita, Rv. 244181).2.2. Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, nella ordinanza impugnata, ha, peraltro, riportato analiticamente le censure svolte dal difensore della persona sottoposta ad indagini e, nel confutarle specificamente, ha diffusamente riportato le risultanze delle indagini e gli elementi probatori che assumono valenza gravemente indiziante nei confronti della ricorrente, descrivendoli compiutamente, episodio per episodio, sulla base della visione diretta delle immagini tratte dal monitoraggio audio e video dell’aula ove operavano la ricorrente e la collega R.G. .Parimenti nella ordinanza impugnata risultano analiticamente descritte e puntualmente esaminate le condotte ritenute idonee ad integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia e la commissione delle stesse direttamente ad opera dalla indagata o, in concorso, morale o materiale, con la collega R. , senza alcuna indebita traslazione di responsabilità penale da un autore all’altro, pur nella cornice unitaria del concorso di persone nel reato.3. Con il secondo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 572 cod. pen., in quanto il Tribunale di Reggio Calabria nell’ordinanza impugnata non aveva verificato se l’indagata fosse o meno mossa da un personale animus corrigendi.Le condotte poste in essere dalla indagata, come le lievi percosse e le tirate di cappelli, ancorché non commendevoli, si rivelavano, infatti, prive di rilievo penale, essendo obiettivamente inidonee ad esprimere reale violenza fisica o psicologica.Non ricorreva, comunque, anche con riferimento alle ulteriori condotte violente contestate, l’estremo della sistematica reiterazione delle stesse, essendo queste, per quanto accertato, intervenute nell’arco temporale di due sole settimane (e, segnatamente, dal (omissis) ).Il Tribunale del riesame di Catanzaro aveva, pertanto, travisato l’efficacia probatoria dei singoli episodi ripresi dalle videocamere installate all’interno della scuola materna. Non aveva, inoltre, dimostrato sulla scorta di quale regola di esperienza un rimprovero, un mero strattonamento o una lieve percossa inferta con una paletta giocattolo possano deprimere l’autostima di un bambino.L’assenza del dolo unitario e della abitualità della condotta imponevano, pertanto, la riqualificazione del delitto in quello di abuso di mezzi di correzione, che, peraltro, in ragione della propria cornice edittale, non consente la adozione di alcuna misura interdittiva.4. Anche tale doglianza si rivela manifestamente infondata.Il Tribunale del riesame di Catanzaro ha congruamente rilevato che le immagini registrate dalle videocamere avevano consentito di riscontrare la presenza di ‘condotte che travalicano sia i comportamenti di rinforzo educativo e sia l’abuso dei mezzi di correzione, trasmodando nell’atteggiamento di violenza fisica e psicologica che concretizza il reato di maltrattamenti’.Il Tribunale del riesame, inoltre, all’esito della visione diretta dei filmati acquisiti, con motivazione congrua, ha ritenuto, provato il clima di tensione emotiva sistematicamente instaurato all’interno delle classi dalla D. , connotato da urla, reazioni esagerate aventi ad oggetto la punizione e la correzione degli alunni, nonché episodi di compressione fisica di varia intensità, trasmodati in alcuni casi nell’utilizzo di violenza fisica di apprezzabile entità.Alla stregua di tale puntuale ricostruzione del fatto, la qualificazione adottata dalla ordinanza impugnata si rivela pienamente conforme ai principi costantemente ribaditi in proposito dalla giurisprudenza di legittimità.L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può, infatti, rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti (ex plurimis: Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017, B., Rv. 269654; Sez. 6, n. 53425 del 22/10/2014, B., Rv. 262336; Sez. 6, n. 36564 del 10/05/2012, C., Rv. 253463).La giurisprudenza di questa Corte ha, del resto, stabilito, oltre venti anni fa, come con riguardo ai bambini il termine ‘correzione’ va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l’eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell’art. 571 cod. pen. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso (Sez. 6, n. 4904 del 18/03/1996, Rv. 205033).5. Manifestamente infondata si rivela, inoltre, la doglianza relativa all’asserito travisamento dei singoli episodi di maltrattamenti ed alla assenza del dolo unitario del delitto contestato, essendo la stessa, in realtà, intesa ad ottenere una diversa, e più favorevole lettura, del medesimo compendio probatorio, declinato dalla difesa in una chiave di lettura edulcorata e minimizzante.Tale motivo di ricorso si rivela, infatti, inammissibile per come è dedotto, in quanto è volto a sollecitare una incursione della Corte di legittimità nella disamina diretta del compendio probatorio posto a fondamento della misura coercitiva di cui si controverte ed una integrale rivalutazione dello stesso.Anche nel giudizio incidentale cautelare, tuttavia, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha, infatti, un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un apparato argomentativo logico sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostenere il proprio convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello della ‘rilettura’ degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 47289 del 10/12/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 6402, 30 aprile 1997, Dessimone, Rv. 207044).Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale non vi è ragione per discostarsi, l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è rilevabile in Cassazione solo se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge o in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato; il controllo di questa Corte, infatti, non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e/o la concludenza dei dati probatori, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, che lo rendono incensurabile in sede di legittimità: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, risultanti cioè prima facie dal testo del provvedimento impugnato, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (ex plurimis: Cass. F, n. 47748 dell’11/08/2014, Rv. Contarini; Cass. 1, sent. 1769 del 28/04/95, Ciraolo, Rv. 201177; Cass. 4, sent. 2050 del 24/10/96, Marseglia, Rv. 206104).6. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari in quanto la già intervenuta sospensione dal servizio disposta dall’Ufficio Scolastico Regionale per la (…) avrebbe eliso ogni pericolo di recidiva ed il procedimento disciplinare, incardinato nei confronti della imputata, era, inoltre, medio tempore stato sospeso, in conformità al contenuto precettivo dell’art. 55 ter, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, sino all’esito del processo penale.La permanenza della sospensione dal servizio per la D. in costanza del procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia, pertanto, rendeva illegittimo il cumulo della misura cautelare interdittiva con la sospensione dal servizio già adottata dall’Ufficio Scolastico Regionale per la (…).Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria avrebbe, infatti, potuto legittimamente applicare la misura interdittiva prevista dall’art. 289 cod. proc. pen. solo qualora fosse venuta meno la sospensione disposta in via amministrativa.7. Anche tale doglianza si rivela, tuttavia, manifestamente infondata.Con riferimento alla efficacia dei provvedimenti di sospensione dal servizio disposti dalla autorità amministrativa in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari e, segnatamente, al pericolo di recidiva, la giurisprudenza di legittimità, anche in seguito alla introduzione del canone dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato nell’art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. ad opera della legge 16 aprile 2015, n. 47, ha ribadito che il giudice della cautela, senza che operi alcun automatismo in materia, deve indicare gli elementi specifici sulla scorta dei quali abbia stimato reale e tuttora esistente il pericolo che l’indagato, pur allontanato dall’ufficio e, dunque, avulso dal contesto ambientale nel quale sono maturate le condotte criminose, possa ancora avere la possibilità e l’occasione di reiterare condotte offensive dei medesimi beni giuridici per commettere altre condotte analoghe eventualmente anche quali ‘estranei’.La disamina del pericolo di recidiva deve, pertanto, fondarsi su dati concreti ed oggettivi, non meramente congetturali, attinenti al caso di specie, che rendano tale esigenza reale ed attuale, cioè effettiva nel momento in cui si procede all’applicazione della misura cautelare (Cass., sez. VI, 11 febbraio 2016, n. 8211, Rv. 266511).In tale contesto interpretativo, in particolare, il giudice della cautela deve valutare il novum rappresentato dai provvedimenti disposti nei confronti dell’indagato, verificando se gli stessi ‘siano o meno definitivi, risultando ovvia la diversa rilevanza suscettibile di dispiegare, ai fini del giudizio prognostico sul punto, da un provvedimento di sospensione solo temporaneo o precario -obiettivamente insuscettibile di consentire una prognosi tranquillante circa il rischio di reiterazione criminosa – rispetto a quello di rimozione definitiva dall’ufficio’.Il Tribunale del riesame di Reggio Calabria ha, pertanto, fatto buon governo di tali principi, ritenendo comunque sussistente il pericolo concreto ed attuale di recidiva, pur a fronte della sospensione, disposta in via amministrativa, della indagata dal servizio, in ragione della pericolosità sociale della medesima, icasticamente dimostrata dai sistematici ‘comportamenti devianti oggetto di contestazione’.La ordinanza impugnata, con motivazione logica e coerente, ha, inoltre, rilevato come la sospensione adottata dall’Ufficio Scolastico Regionale dal servizio non possa essere considerata elemento idoneo a far ritenere scemate o insussistenti le esigenze cautelari ed, in specie, il pericolo di reiterazione della condotta criminosa per come contestata, in quanto ‘costituisce un provvedimento autonomo, che può avere diversa e minore durata e con effetti diversi sul piano lavorativo’.La sospensione deliberata in via amministrativa ha, infatti, efficacia meramente interinale ed, operando rebus sic stantibus, potrebbe essere revocata o, comunque, annullata pur in pendenza del procedimento penale.Nessun rilievo può, inoltre, assumere nella specie la dedotta sospensione del procedimento disciplinare, in quanto la stessa costituisce una sopravvenienza intervenuta successivamente alla adozione della ordinanza impugnata e che, comunque, non muta i tratti strutturali del provvedimento di sospensione adottato in via amministrativa.Inconferente si rivela, inoltre, nella specie il contenuto precettivo dell’art. 55 ter, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, pur invocato dalla ricorrente, in quanto tale norma, rubricata ‘Rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale’, prevede che ‘nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale…Resta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente’.Tale norma, pertanto, nulla prevede in ordine alla durata del provvedimento cautelare adottato in sede amministrativa, che può seguire vicende autonome in attesa della definizione del procedimento disciplinare.8. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve dichiarato inammissibile in quanto manifestamente infondato, ed la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che si ravvisano ragioni di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro millecinquecento in favore della cassa delle ammende.

Fonte: Corte di Cassazione

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